Un articolo di Benedetti

13 novembre 1966 - Firenze allagata

I giorni del fango

di Arrigo Benedetti

 

Cominciò tutto la mattina presto. Le acque dell’Arno traboccarono e scivolarono nelle strade. La pioggia nera rallentava il sorgere del giorno.

FIRENZE – Cominciò la mattina presto. Era ancora notte quando le acque traboccarono e scivolarono nelle strade. Pioveva forte, c’era qualche bar aperto e l’animazione dell’alba intorno ai panifici. La pioggia nera rallentava il sorgere del giorno. Alcune automobili correvano: proprietari di negozi che dicevano: «Il peggio deve essere passato», supponendo di fare in tempo a mettere in salvo un po’ di merce. Di là dagli sporti aperti, dalle saracinesche sollevate, si vedevano i bagliori delle candele e delle pile. Ormai saltavano le cabine elettriche, uno dopo l’altro i rioni restavano al buio; cominciavano le esplosioni delle caldaie per il riscaldamento; altri scoppi nessuno li sapeva definire. Verso le sette e mezzo, i pochi proprietari di negozi accorsi vennero messi in fuga dalle acque crescenti. Il peggio non c’era ancora stato. Il traffico parve intensificarsi, le prime automobili furono rovesciate. L’onda scavalcava ormai i parapetti del fiume, s’incanalava nelle strade, per via de’ Benci, ad esempio, raggiungeva piazza Santa Croce, circondava le carceri di Santa Verdiana, di Santa Teresa, delle Murate, il nuovo edificio della Nazione.

L’onda respingeva uomini e donne usciti di casa per le provviste e quelli che andavano in chiesa per il primo venerdì del mese. Raggiungeva gli Uffizi, entrava negli studi per il restauro, bloccava in palazzo Vecchio il sindaco Bargellini. Acquistando velocità scendeva verso piazza della Repubblica, sbatteva contro i fianchi del Battistero, rovesciava altre automobili in sosta, contorceva biciclette, le schiacciava contro la ringhiera che circonda il Duomo, dove sarebbero rimaste appiccicate in un amalgama di fango, rami, foglie, stoffe, carte. Staccava le formelle dalle porte d’oro del Ghiberti.

Era la mattina del 4 novembre, giorno festivo, le bandiere esposte alle finestre degli uffici pubblici pendevano appesantite dalla pioggia. Ormai per le notizie c’erano solo i transistor, ma i giornali radio cominciavano sempre parlando delle cerimonie sull’Altare della Patria. I fiorentini ridevano. Chissà con quale sarcasmo, la sera, se ne avessero avuto la possibilità, avrebbero assistito al telegiornale delle 8.30: bersaglieri, reduci, ministri; il patriottismo rendeva ancora una volta ridicola l’Italia.

Via via che il giorno cresceva la pioggia lasciava filtrare una luce biancastra. Un segno di colore insolito, giallo-rossastro, sorprendeva la gente affacciatasi alle finestre dei piani superiori; una specie d’untuosità.

La nafta! Usciva dai depositi per il riscaldamento, galleggiava sulle acque insieme al liquame delle fogne. Oggetti d’un artigianato raffinatissimo si mescolavano agli orribili souvenir turistici, ai cuoiami con impresso il giglio, ai piatti con Dante che passeggia sbirciando Beatrice. Tutto veniva risucchiato e trasformato dai gorghi che ormai scavalcavano i ponti.


Sui terrazzi e sui tetti

La piena penetrava nelle stradine strette e lunghe che corrono parallele ai lungarni Diaz, Acciaioli, Corsini, Vespucci. Imboccato Borgo Santissimi Apostoli, sollevava le automobili in sosta, sboccava nei cortili e ne snidava altre portandole con sé. Un molinello denso e putrido sollevò automobili utilitarie e di lusso, le fece ricadere, intasò la strada: mai si era vista in nessuna guerra una barricata tanto solida. L’onda provenendo dai lungarni raggiungeva quella che si srotolava nelle strade interne, sollevando cavalloni che giungevano ai primi piani. Lo scroscio improvvisamente venne dominato da un fragore lì per lì indefinibile.

Crolla il Ponte Vecchio, credettero molti fiorentini, e lo gridarono stupiti: un guasto che i tedeschi nell’estate del ’44 non ebbero il coraggio di compiere dopo avere distrutto tutti gli altri ponti cittadini, ora lo faceva il fiume. Finivano di crollare, invece, i parapetti verso il Ponte alle Grazie, e l’intiera balaustra del lungarno Acciaioli e metà della sede stradale.

Le acque spezzavano i vetri delle boutique, penetrate all’interno s’incontravano coi rigurgiti provenienti dalle cantine; la violenta risacca d’aria che ne derivava faceva scoppiare le saracinesche e piegava verso l’esterno i cancelli calati la sera prima davanti alle vetrine. Portava con sé abiti, biancheria per grandi e bambini, libri, giornali inglesi e americani, scatole di tabacco, bottiglie, anelli, spille, collane, sedie, poltroncine metalliche, divani, dépliant di società aeree, cosmetici, caramelle, biscotti, cuscini. Il fango amalgamava subito le cose, le rendeva tutte uguali, le mescolava ai detriti venuti dalla Valdarno superiore e avvolgeva ogni oggetto nella patina bruna e rossastra.

Ormai il fiume aveva allargato con prepotenza il suo letto. Quel pomeriggio pareva avere raggiunto i suoi obiettivi. Si estendeva da Ricorboli, sotto il piazzale Michelangelo, fino alle falde di Monte Oliveto. Sulla sponda destra, l’onda proveniente dal centro storico invadeva il teatro comunale, la Pergola, il teatro Verdi, le Cascine, raggiungeva via del Ponte alle Mosse, si stendeva e si raccoglieva nelle vicinanze di Novoli, bloccava l’ingresso dell’autostrada del Mare che immette al bivio di quella del Sole. Verso le quattro del pomeriggio l’inondazione aveva invaso la città a valle dei viali e i grandi quartieri verso Campi Bisenzio, Peretola, Prato. Nel cielo elicotteri; nelle strade natanti, motoscafi, imbarcazioni di gomma. Sui tetti dei vecchi edifici a due piani, gruppi di uomini e di donne sventolavano lenzuoli. Gli inquilini delle nuove costruzioni a cinque, sei, sette piatti, isolati, privi di telefono, salivano a loro volta sui terrazzi. Dai cancelli dei supermarket usciva la varia merceologia a disposizione della clientela. Nelle trombe degli ascensori gorgogliavano flutti che cercavano con fragore una via d’uscita. Ogni tanto uno schianto, portoni che avevano ceduto, saracinesche che seguitavano a scoppiare, automobili che dopo una corsa sul pelo delle acque battevano contro altre automobili.


Evadono i carcerati

I possessori di transistor si sporgevano dalle finestre, comunicavano le notizie che per quanto gravi rassicuravano giacché meno drammatiche di quelle giunte chissà per quali strade, e stando alle quali Ponte Vecchio non esi-steva più e lo stesso Duomo era minacciato. Dai terrazzi si scambiavano segnali, talvolta appariva un cartello a lettere cubitali su cui si leggeva: «Qui c’è una partoriente… Qui c’è un malato grave…».

«Che schifo!», gridavano coloro che scendevano le scale e si protendevano sulla corrente. La nafta, lo sterco, coloravano il pelo mobile delle acque, lasciavano il loro segno immondo sulle facciate dei palazzi di pietra, s’insinuavano nelle bugnature, scivolavano sulle panche anch’esse di pietra fuori dei palazzi di via Cavour, di via de’ Pucci, colmavano le cassette rosse della posta, i cestini metallici per le cartacce. Automobili capovolte, unte, terrose, altre impennate contro i muri, mobili, paralumi metallici e paralumi di seta, sedie viennesi, sedie di metallo e di plastica, poltrone di finto cuoio; anche il canarino morto in una gabbia dalla cupola oblunga era rosso-bruno, untuoso, schifosamente contaminato.

A questo punto, il cronista ha il dovere d’una precisazione topografica. Non è stata colpita solo la Firenze storica e quella raffinata dei bei lussuosi negozi. Tra le sei del mattino e la sera del 4 novembre, i disagi, i pericoli diventavano forti come mai lo erano stati forse neanche durante la guerra nel quartiere popolare di San Frediano, in quelli poveri dove esistono ancora le casupole dell’avarizia granducale. Infine ci sono altre zone sociali da non trascurare: le monache che vedevano entrare in convento i detenuti di Santa Teresa e delle Murate, i carcerati stessi che si ribellavano e cercavano di fuggire temendo di morire affogati, gli spari. Una grande città annovera poi nella sua popolazione un numero grosso di animali. Gatti, cani, volatili sui tetti accomunati dalla paura, muti; altri animali risucchiati dalla corrente; infine i bellissimi cavalli dell’ippodromo delle Cascine e delle Mulina, più di 150, si dice, morti affogati, dopo aver tentato in uno sforzo terribile di liberarsi e magari dopo essersi liberati finiti nel fango untuoso.
«Crollano le dighe di Levane...».
«I carcerati delle Murate hanno tagliato la corda, entrano nelle case, le saccheggiano, raccattano gli oggetti preziosi nel fango. Stanotte, penetreranno nelle case: bisognerà tenere la luce accesa, parlare a voce alta, fare sentire che in casa c’è qualcuno...».
«Pisa invasa, Santa Croce sull’Arno è completamente sotto...
«C’è chi sta peggio di noi». Le notizie suggerite dall’emozione, quelle diffuse dai transistor ed altre filtrate chissà da dove si mescolavano, alimentavano un’esaltazione quasi a compenso della paura e dei disagi.
«Firenze non sarà più Firenze!».
Non si trattava d’un isolamento che potesse finire quando la sera il cielo s’aprì, le stelle fecero sperare il bel tempo. Il vento freddo seccava le strade su cui le acque erano passate veloci, mentre non riusciva a solidificare gli spessi strati di fango nei punti dove la piena aveva stagnato. Ululati di sirene che tenevano vivo l’orgasmo, del resto reso più forte dal silenzio che dominava il centro storico, dal brontolio del fiume rientrato nel letto.

La mattina del 5 era bel tempo.
«Via questa sporcizia», dicevano uomini e donne raccogliendo la fanghiglia untuosa rimasta nei negozi.
«Via, via», mormoravano con una smorfia di ribrezzo, smaniosi d’eliminare i segni di un disordine inammissibile a Firenze, fare sparire quel rigurgito schifoso dell’inferno.

«Che schifo la nafta!», esclamavano. Entro in un ufficio passando fra le ante socchiuse, cammino nel fango che scricchiola: vetri, frammenti metallici, forse di macchine per scrivere o di calcolatrici. Non riesco a capire quali affari vi si sbrigassero fino a due giorni fa. Non si riconoscono più i celebri negozi che attiravano la clientela più ricca del mondo, nelle cui vetrine erano esposte borse di pelle, valige, cravatte, maglieria destinata a soddisfare lo snobismo internazionale. Chissà in quale di queste caverne oscure esistette un famoso caffè, un bar registrato dalla letteratura, specie da quella anglosassone. Non ritrovo il corniciaio che se uno gli portava un Rosai aveva l’aria di non volere dal cliente nessun suggerimento: sarebbe intervenuto lui stesso d’artista, alla pari col pittore, per completare un dipinto che senza la sua collaborazione finale non sarebbe stato perfetto. Possibile, mi domando, che queste formiche (tali paiono i fiorentini nei crepuscoli dei giorni seguiti all’alluvione) riescano a purificare i loro fondaci, ora illuminati da candele fioche, e che gli snob penetrino ancora in quell’usciolino, anzi non si sa più nemmeno individuarlo, coi suoi battenti di legno. Le due immagini, quella di ieri e quella di domani, paiono ugualmente assurde, fantasticate durante la lettura di un romanzo anglofiorentino.


Autonomi come sempre

Ogni tanto l’onda sembra avere risparmiato un edificio: le panche di pietra di Palazzo Strozzi sono pulite, la nafta non le ha neanche sfiorate. La mostra dell’argentiere lì vicino è intatta, bricchi, cuccume panciute raccolgono l’ultima luce del giorno. Certi negozi d’abbigliamento offrono questa visione: fino all’altezza d’un metro e mezzo o poco più, talvolta due metri, la mota unta e rossa ha reso opachi i legni, gli specchi, gli involucri delle merci. In alto invece le scatole di varia grandezza, di cartone lucido, intensamente bianco, non sono neanche mosse. Il loro allineamento è quello di sempre: l’occhio vi indugia e ha l’impressione di vecchi tempi che non torneranno più.

Di là dai viali c’è il chiasso dei soccorsi. Chi ha salvato la macchina punta verso la campagna con damigiane e taniche per l’acqua. Sfilano gli autotreni dell’esercito, quelli carichi di cibo, le autobotti. L’esercito blocca i veicoli all’ingresso del centro storico. Che brutta impressione, quando cala la sera, dà una città (non si chiamasse pure Firenze) devastata da un’improvvisa ribellione della natura. E che tristezza negli occhi di tutti. I fiorentini si sono messi subito al lavoro senza aspettare gli aiuti governativi o municipali, eccitati anzi dalla molte pigrizie della burocrazia, autonomi come sempre e con un fervore intenso, non ostentato proprio come nell’estate del ’44 quando la guerra arrivò in città. È sera. Raggiungo i resti del lungarno Accioli, l’acqua fangosa gorgoglia giù in basso, nel silenzio. Le proprietarie delle boutique e le commesse sofisticate, simili a fagotti fangosi, frugano nella melma. Si direbbe che alcuni secoli siano passati improvvisamente, e che l’orgogliosa civiltà dei consumi di cui Firenze è uno dei perni, forse il più suggestivo, sia tramontata. È come se una grande crisi avesse sconvolto il mondo e altrove la decadenza fosse ancora più squallida. Non si crede più che esista un mondo illuminato, in cui ci si gode il benessere contemporaneo. Una popolazione silenziosa s’aggira negli atri muscosi dei palazzi, nei negozi, già abituatasi ad un genere nuovo di vita, quasi dimentica dell’animazione vivace che c’era a Firenze poche sere fa. Si sentiva la fine della crisi, nessuno parlava più di recessione, il benessere esaltava di nuovo. All’improvviso invece, in seguito a piogge più insistenti del solito, e forse per lo spirito fiacco d’un ceto dirigente incline a esorcizzare la natura soltanto coi riti e con le cerimonie e non con lo studio, il lavoro, la tecnologia, tutto pare perduto. Per fortuna, sono immagini labili, suggerite dalla sensibilità, dal dolore. Ma è innegabile che la precarietà geofisica italiana, quando si manifesta, abbia un che di sinistro.